Immergo un setaccio nell’acquario dei gesti. I pesci appaiono dEfoRMati dal vetro e dall’acqua. Bocche palpitanti. Occhi inverosimili.
Estraggo il setaccio. Guardo che cosa è emerso: i gesti che hanno reso delicata la mia quarantena. Le pepite insospettabili.
- Scostare le foglie del basilico, immergere il naso, aspirare (occhi chiusi).
- Accendere luci piccole, con ampiezza tenue, carezza soft.
- Iscrivermi a ben tre newsletter (ho sempre odiato le newsletter, ora mi paiono il giusto compromesso tra uno che ti suona il campanello ogni giorno e uno sconosciuto che per strada ti chiede garbatamente: «Scusi, posso passare?»).
- Sentire una persona che era giusto, finalmente, sentire.
- Aver messo da parte il mio orgoglio per sentire una persona che era giusto, finalmente, sentire.
- Stappare quella birra rossa doppio malto dell’iN’s, che mi ha concesso la tregua dall’iper-coscienza.
- Leggere queste tre (o quattro?) parole infilate da Borges: sospetto, eternità, Buenos Aires.
- Finire un romanzo che parla di am(dol)ore.
- Scrivere a qualsiasi ora del giorno, della notte, del quasi-giorno, dell’infra-notte.
- Spazzare petali di magnolia.
- Distendermi sul pavimento e percepire lo stampo della mia schiena a terra.
- Innumerevoli messaggi scambiati con persone sacre.
Ho ancora il setaccio in mano. Strizzo le palpebre per affinare la vista. Continuo a esplorare.
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