Non voglio dire che la mia “vita di prima” si basasse essenzialmente sull’abbraccio, ma la mia vita di prima si basava essenzialmente sull’abbraccio. Che è un modo per dire che ballavo tango quasi ogni giorno.
Come mi sento senza? È una cosa strana. È come quando non vedi per lungo tempo una persona e tutto sommato stai anche discretamente, poi un pomeriggio la ritrovi e nell’esplosione di un momento comprendi quanto ti è mancata. Così tanto che piangi.
Ecco. Ogni volta che in questa quarantena ascolto un brano di tango, provo una sensazione simile. Un diroccamento interiore, unito a una consapevolezza acuta e a un furioso desiderio di vita.
Cos’ha il tango di così speciale? Tantissime cose. Ma soprattutto l’abbraccio. Corpo su corpo, nessuna bugia.
Il tango – mi verrebbe da dire – è una disciplina dell’abbraccio. Non nel senso delle regole e della costrizione, ma della ricerca incessante. Dell’approfondimento senza fine. Dirsi: e se faccio così o così, se provo così e cambio così, che succede? E se sposto, se spingo, se lascio, allungo, stiracchio, se intensifico o allento, se respiro, se godo, se sciolgo o tendo o irrobustisco, che succede? E se m’immergo, o controllo, o affondo e cado, o mi sostengo e regno, se imprimo, impugno, impazzisco, che succede?
Succede ogni volta una cosa diversa. Ogni volta una sensazione originale, come se il mondo l’avesse appena partorita.
Questo mi manca: l’inarrestabile creazione di abbracci. E tutto il tempo che il tango ti dà: il tempo dell’esplorazione, il tempo di una vita.
Allora io, come primo atto di libertà una volta uscita di qui, voglio scorticarmi in un abbraccio di tango.